BIO & MUSICA

Lo studio della chitarra classica e del pianoforte al conservatorio, la passione per l’organetto, il jazz e la canzone d’autore, il rock demenziale e la musica indiana, la direzione corale, la composizione strumentale e, infine, la composizione di canzoni.

Marco Belcastro ha percorso tante direzioni della musica, ha collaborato con artisti di generi e linguaggi diversi e ha sperimentato soluzioni sempre più personali per esprimere la sua creatività e dare linfa alla propria ricerca.

Ma è soprattutto il canto ad averlo affascinato e al canto si dedica da sempre, come interprete, autore, insegnante. Si è perfezionato nel “Metodo funzionale della voce” di Gisela Rohmert dell’istituto di Lichtenberg, specializzandosi poi in funzionalità vocale con Maria Silvia Roveri presso il centro “Nova cantica” di cui è stato docente. Ha studiato il canto indiano in Italia e in India con Ritwik Sanyal.

La sua curiosità e il desiderio di nutrire la propria voce gli hanno permesso di incrociare pratiche originali, in cui si accostano il suono e le forme, il canto e il colore. Nei suoi seminari e nei laboratori si possono sperimentare queste proposte e godere pienamente del piacere del canto.

Da anni Marco Belcastro incide i propri lavori, ma è del 2018 il primo dei suoi cd in cui è autore della musica e dei testi, una tappa importante nella quale la sua poetica prende forma anche attraverso le parole e si dispiega nelle nove canzoni che compongono il disco. “Siamo passati di lì” ne è il titolo, a ricordare che tutti siamo in viaggio e, forse, ad evocare i tanti passi che lo hanno condotto a misurarsi come cantautore.

Dopo la maturità scientifica ed aver studiato per anni chitarra classica, mi dedico allo studio del pianoforte conseguendone il diploma presso il conservatorio di Verona nel 1990.

Mi perfeziono in ‘Metodo Funzionale della Voce’ di Gisela Rohmert con gli insegnanti dell’istituto di Lichtenberg tra cui Gisela Romhert, Ruth Weimer e Martin Landzettel e mi specializzo in ‘Funzionalità vocale’ con Maria Silvia Roveri presso il centro di funzionalità vocale ‘Nova Cantica’ di S.Giustina (Belluno).

Approfondisco lo studio del canto indiano presso il conservatorio di Vicenza  e, a Benares (India), con il cantante Dhrupad Ritwik Sanyal.

Mi diplomo alla Civica Scuola di Animazione Pedagogica e Sociale di MIlano.

Mi specializzo nello studio dell'organetto diatonico con Vincenzo Caglioti

Negli anni 90 sono leader con Vittorio Liberti del gruppo The MuRo

Conduco seminari e corsi individuali di Funzionalità Vocale.

Suono e canto in varie formazione dove propongo repertori che vanno dalla canzone d’autore a musiche e canzoni di mia composizione e della tradizione popolare.

Collaboro con la cooperativa ‘Progetto 98’ di Busto Arsizio come esperto vocale per la rieducazione al suono ed alla voce di persone colpite da traumi cerebrali o ictus.

Ho collaborato come docente con la scuola NovaCantica di S.Giustina (Bl) diretta da Maria Silvia Roveri.

Collaboro come cantante, musicista e compositore con l'attore Roberto Anglisani e con varie compagnie teatrali italiane.

 

Incido i dischi "Farfalle gialle", "Melquìades Emporio" , "SoloVolo" , "Voglio una cosa dirti - il Cantico dei Cantici" , "Siamo passatti di lì" con musiche di mia composizione e l'omaggio a Fabrizio De André "Alle nuvole in viaggio ha legato il suo amore".

FARFALLE GIALLE

EMPORIO

SOLO VOLO

VOGLIO UNA COSA DIRTI

SIAMO PASSATI

DI Lì

ALLE NUVOLE IN VIAGGIO

HA LEGATO IL SUO AMORE

FARFALLE GIALLE

Marco Belcastro: voce, chitarra, organetto diatonico

Simone Mauri: clarinetto basso, clarinetto, pennywhistel

con la partecipazione di Antonio Cervellino: contrabbasso e basso elettrico

“Il lavoro a cui sono più affezionato. Registrato in diretta (…come una volta…), con i pregi ed i difetti che ciò comporta, in due giorni nella magica atmosfera del Sulphur Moa.”

Disegno di copertina: Mara De Fanti

 

Registrato e mixato Giovanni Gianda Bedetti nel gennaio 2000 al Sulphur Moa di Gironico (Co)1. Tutto bene (M.Belcastro, S. Mauri)

2. British swing (N.Pignol, arr. S.Mauri)

3. Walzer svedese (trad.) + tema di Menuchim (M.Belcastro)

4. Trepoidue (M. Belcastro, S. Mauri)

5. Mille Scalini (M. Belcastro)

6. Köln concept

7. Der rebbe hot gehejsen (trad. ebraico)

8. Ricordi, tanti (M. Belcastro)

9. Salta Salta

10. Waiting for Waits (M. Belcastro)

11. Io sono una stella (M. Belcastro)

12. Nuvole di fiele (M. Belcastro, S. Mauri)

13. Farfalle Gialle (M. Belcastro)

14. Linus (P. Zemp)

EMPORIO - MELQUIADES

Marco Belcastro: Voce, chitarra, organetto diatonico

Simone Mauri: clarinetto basso, clarinetto

Paolo Botti: viola

Andrea Donati: contrabbasso

Con la partecipazione di:

Giulia Larghi: violino

Maurizio Aliffi: mandolino

Vittorio Liberti: fisarmonica

Nadir Giori: contrabbasso

Sandro Tangredi: cori

Disegno di copertina: Mara De Fanti

Registrato e mixato Giovanni Gianda Bedetti nei mesi tra ottobre 2003 e febbraio 2004 al Sulphur Moa di Gironico (Co

 

1. Melquiades Emporium (M.Belcastro)

2. Verdùn (M. Belcastro)

3. Via allo sminamento (M. Belcastro, M. Fiocchi)

4. Nueva Alinelmar (M. Belcastro)

5. Trad. Zigano

6. Non potho reposare (trad. Sardo)

7. Trisciò (M. Belcastro)

8. L’è my finida (M. Belcastro)

9. Muri Kalca Kocsakenca - My Trousers (trad. Ungherese)

10. Waiting for Waits (M. Belcastro)

11. Possibile (M. Belcastro)

12. A righe come la tigre (M. Belcastro)

13. ...Finida (M. Belcastro)

SOLO VOLO

Marco Belcastro: pianoforte, voce

Maria Antonietta Puggioni: violoncello

Hanno partecipato:

Letizia Colombo: flauto traverso

Giovanni Gianda Bedetti: chitarra acustica

 

SoloVolo è un viaggio musicale che ci conduce attraverso spazi senza tempo e tempo di delicata bellezza, suoni lievi di quadri notturni, suoni di sogno che tracciano segni……..

 

Registrato e Mixato da Giovanni Gianda Bedetti e Filadelfo Castro nei giorni di neve del 3, 4 gennaio 2008 presso lo studio Exclaim di Olgiate Comasco.

Nodo Libri EdizionI

 

1. Il bosco (M.Belcastro)

2. Pienaluna (M. Belcastro)

3. Senza titolo (M. Belcastro)

4. Solo Volo (M. Belcastro)

5. In un fremito (M. Belcastro)

6. Solmibemolle (M. Belcastro)

7. Parvati (M. Belcastro)

8. Nueva Alinelmar (M. Belcastro)

9. La notte (M. Belcastro, S. Badaracco)

10. In piedi sul tetto (V. Liberti)

11. Soledad (M. Belcastro)

RECENSIONI: 1 E 2

LOCANDINA: 1

 

VOGLIO UNA COSA DIRTI

Marco Belcastro: voce, organetto diatonico, armonium, chitarra, composizioni

Simone Mauri: clarinetto basso

Alberto Morelli: armonium, percussioni, voce, kanjira, sonagli, flauto bansuri, piffero, duduk, salterio, conchiglia

Franco Parravicini: arrangiamento, chitarra acustica, chitarra portoghese, chitarra elettrica, saz ( chitarra saracena ), adungo ( arpetta africana ), basso

 

Marta Orlando (cori), Supryo Dutta (voce), Federico Sanesi (daf, bodran, zarb e gattam), Mario Arcari (flauto dritto, oboe), Sergio Seregni (cori, registrazione e missaggio)

Uno splendido verso tratto da una poesia di Saffo è il titolo del nuovo album di Marco Belcastro, presentato nell’accogliente sala del Teatro San Teodoro di Cantù. In tanti, fra vecchi e nuovi fan, sono accorsi ad ascoltare l’evocativo quintetto formato dallo stesso Belcastro, Franco Parravicini , Simone Mauri, Alberto Morelli  e Clara Zucchetti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Voglio una cosa dirti interpreta in maniera originale e moderna Il Cantico dei Cantici, nella traduzione poetica del gesuita spagnolo Alonso Shockel. Rispetto agli album precedenti, più strumentali, in questo il musicista comasco distribuisce parole, note e pause in maniera equa, andando a stabilire un equilibrio perfetto fra le cose che vuole dire e le cose non dette, forse per pudore, come decanta Saffo, o forse perché è nel silenzio che certe verità vengono davvero intese. È un album che trasuda amore: lo si percepisce dai testi interamente incentrati sull’amore (sacro, profano, spirituale, sensuale, universale), lo si sente nella cura con cui ogni brano è stato confezionato, lo si trova nella precisione esecutiva di chi non vuole inondarvi di suono, ma giusto arrivare a toccarvi e poi decidete voi che fare: esitare, restare, lasciarvi andare, va bene lo stesso. Perché questa musica tutta intrisa d’amore, in realtà non ve lo propone, crea piuttosto lo spazio perché l’amore, se vi pare, possa accadere.

Il risultato è un’atmosfera musicale un po’ europea e un po’ mediorientale, in cui ogni volta che Belcastro mette, toglie, ogni volta che riveste, denuda, lasciandoci accedere al senso più autentico delle parole e delle note. Un’atmosfera musicale che ricorda molto il minimalismo, ma più… caliente, aperto, mediterraneo.

Francesca Pirrone

 

Per la vicinanza nell’intenzione e per il contrasto dell’esito, le parole dell’incipit di Saffo sono state scelte come titolo di questo progetto.

Il percorso artistico che ha portato alla realizzazione del cd  “Voglio una cosa dirti” nasce qualche tempo fa dall’ispirazione di un testo poetico biblico: il Cantico dei Cantici nella traduzione del gesuita spagnolo Alonso Shockel.  L’occasione dell’incontro con il Cantico era stata la collaborazione musicale ad uno spettacolo teatrale che l’attrice Cristina Calì voleva dedicare al misticismo femminile. Lo spettacolo è rimasto per adesso un progetto, ma le parole del Cantico, da lì ad un anno, divennero dodici canzoni: la musica aveva rivestito nuovamente, come in origine, le parole.

 

I CORI, LA GRAFICA, GLI ARRANGIAMENTI

Il progetto di musicare il Cantico ha raccolto molti contributi che hanno reso più ricca e preziosa la composizione iniziale.

Il 6 aprile 2013 i musicisti Marco Belcastro, Simone Mauri, Alberto Morelli, Franco Parravicini e Clara Zucchetti hanno debuttato al Teatro Sociale di Como assieme a due cori di ragazzi, La scatola di Cachi del Liceo Giovio e Macramè dell’Istituto Tecnico Economico Caio Plinio Secondo di Como, grazie agli arrangiamenti ed armonizzazioni per coro di Vittorio Liberti.. Le voci dei giovani coristi hanno sostenuto alcuni dei brani proposti, intervallati dalla lettura di un diario d’amore, una confidenza intima, testimone di quanto questo sentimento sia emozionante, complicato, estremo.

 

Dicono

che il primo amore è il più importante.

Ciò è molto romantico

ma non fa il caso mio.

 

Qualcosa tra noi c’è stato e non c’è stato,

accadde e si è perduto.

 

Non mi tremano le mani

quando mi imbatto in piccoli ricordi,

in un rotolo di lettere legate con lo spago

- fosse almeno un nastrino.

 

Il nostro unico incontro dopo anni:

conversazione di due sedie

accanto a un freddo tavolino.

 

Altri amori

ancora respirano profondi dentro me.

A questo manca il fiato anche per sospirare.

 

Eppure proprio così com’è,

è capace di fare ciò di cui quelli

ancora non sono capaci:

non ricordato,

neppure sognato,

mi familiarizza con la morte.

 

(W. Szymborska)

La locandina del concerto e la grafica del cd, curate da Piero Mazzoli, sono nate dalla suggestione delle miniature Moghul.

In India, nel XVI e XVII secolo, sotto la dominazione della dinastia Moghul, artisti islamici provenienti dal Medio Oriente e dalla Persia fecero fiorire l’arte delle miniature. Nate per illustrare poemi, racconti mitici e gesta dell’imperatore e della sua corte, in esse si incontrano il gusto per la rappresentazione realistica di piante e giardini con le atmosfere fantastiche e sognanti dell’arte indiana. La rappresentazione figurativa del Cantico dei Cantici, con le sue fontane e ruscelli, la vite che germoglia, le palme e i melograni fioriti, poteva essere un giardino Moghul: nelle civiltà nate a contatto con il deserto il giardino non è solo simbolo del paradiso, ma anche teatro del mito e luogo dove può manifestarsi il sublime. Da questo mondo lontano arriva il fiore rosso che l’uomo ha colto per la sua amata e tiene delicatamente tra le dita.

 

Terra

 

Ah se in questo silenzio

con questa purezza

tu diventassi terra tra le mie braccia,

in questo silenzio, con questa purezza

tra le mie braccia

sotto l’ombrello dei miei capelli

quando il terreno del mio giovane corpo

ti beve

come una pioggia delicata

o una carezza di luna.

(F. Farrokhzad)

 

Gli arrangiamenti di Franco Parravicini e l’impiego di molti strumenti, classici, etnici e popolari, hanno cercato sonorità mediterranee. La direzione scelta è stata quella di alternare momenti molto ricchi di suono a brani “vuoti”, scavati, dove la musica è distillata. È essa stessa un’essenza.

 

Franco Parravicini è solito cercare musicisti con una propria impronta, predilige situazioni con uno e pochissimi strumenti, alla ricerca di arrangiamenti trasparenti. “Voglio Una Cosa Dirti” rientrava benissimo in questa idea. Dopo aver ascoltato i brani registrati per voce e pianoforte, la prima proposta era stata quella di tenere le melodie su bordoni e ritmiche diverse, eseguite da strumenti etnici e tradizionali, ad evocare una antica musica medio-orientale, forte di una lunga esperienza musicale con strumenti etnici dell’area mediterranea, africana e araba che Franco ha maturato dagli anni 70, soprattutto con i Dissòi Lògoi assieme ad Alberto Morelli.

Alla fine la soluzione preferita è stata, però, quella di arrangiare l’idea armonica originale, modificando qualche accordo e riscrivendola per strumenti inusuali, rari. Musicisti amici, capaci di dare suono alla musica creata da Marco e lavorata da Franco, hanno contribuito al progetto con i loro strumenti:

Simone Mauri (clarinetto basso), Clara Zucchetti (voce, vibrafono, darabuka, tamburo a cornice, bastone della pioggia), Alberto Morelli (armonium, canjra, darabuka, flauti bansuri, bendir, piffero, cimbalo, bastone della pioggia, duduk, salterio ad arco, conchiglia), assieme a Marco Belcastro (voce, organetto diatonico, armonium, chitarra classica) e a Franco Parravicini (chitarra elettrica, acustica, basso, fado - chitarra portoghese - , adundo  - arpetta aficana -, saz  - chitarra saracena  - , sitar, bastone della pioggia, programmazione ritmica  - udu  - , campana tibetana. Parravicini ha curato anche la registrazione e il missaggio. Ospiti eccellenti quali Marta Orlando (cori), Supryo Dutta (voce), Federico Sanesi (daf, bodran, zarb e gattam), Mario Arcari (flauto dritto, oboe), Sergio Seregni (cori, registrazione e missaggio) hanno impreziosito la registrazione.

 

IL CANTO. La musica e la parola

Ogni testo poetico è musicale di per sé.

Il Cantico non fa eccezione e, come altri testi poetici biblici (es. i Salmi), è scritto per il canto, anzi potremmo quasi affermare che esso sia stato scritto cantando.

La musica, pertanto, non aggiunge al Cantico qualcosa, ma ci permette di sperimentarlo per quello che è veramente, come ci sarebbe arrivato se, oltre ai significati, ponessimo attenzione alla musica che serba dentro di sé. Al contrario, la semplice lettura prosastica toglierebbe qualcosa di essenziale al Cantico.

Questo aspetto, così evidente nel Cantico, ci permette però di fare una breve digressione più ampia: la parola stessa nasce col canto. L’origine e il destino della parola, di ogni parola, è il canto. Il canto e la musica in genere non costituiscono un’aggiunta alla parola, ma ne sono la sorgente.

La musica è, quindi, necessaria alla piena comprensione del Cantico dei Cantici.

 

 

IL SIMBOLO. Il corpo luogo sorgivo di ogni simbolo.

Il Cantico è luogo di simboli perché canta del corpo che si espone e accoglie l’amore, perché è un testo poetico, performativo, sapienziale.

 

La spiegazione simbolica però non annulla [la realtà del]l’amore.

(Giovanni Crisostomo, Commento alla Lettera agli Efesini)

 

Questa brevissima citazione dal Crisostomo ci suggerisce due termini chiave per comprendere il Cantico: 1) spiegazione simbolica, il tema del simbolo e 2) amore concreto, la realtà dell’amore.

Per la mentalità moderna e post-moderna, simbolo e realtà appaiono come termini inconciliabili: il simbolo non è luogo di realtà e la realtà semplicemente “oggettiva”, “cosale”. Il simbolo è luogo di ambiguità, frutto di fantasia. La realtà è solo realtà.

Nel Cantico non è così. Qui non compaiono mai “astrazioni” o “concetti”, allo stesso modo però non troviamo realtà puramente “oggettive”. Non ci sono pure interiorità né mere esteriorità.

Si descrivono corpi di uomo, corpi di donna, ma non solo meri corpi. Anche le emozioni sono sempre corporee, i corpi sempre modalità di esperienze spirituali e interiori.

Questo è vero simbolismo vissuto a partire dal luogo sorgivo di ogni simbolo per l’uomo: il corpo come simbolo originario.

Il Cantico testimonia la natura simbolica della vita anche da un punto di vista “formale”.

In quanto testo poetico, il Cantico è resistente a tutti i riduzionismi: all’allegorismo che vorrebbe ridurre l’esperienza simbolica della realtà a semplice funzione della ragione; all’interiorismo che vorrebbe ridurre il simbolo a pura metafora del vissuto interiore; al fisicismo che guarda la realtà come mera cosalità.

Il Cantico non istituisce paragoni e non costruisce allegorie, non utilizza mai il “come”, ma sempre l’”è”. È un testo poetico, cioè simbolico, ed è simbolico perché “poietico”, ossia “generato dall’azione vissuta pienamente”: le identità (donna-palma, ecc.), che vengono mostrate, sono primariamente e perennemente vivibili e sperimentabili, esse vengono rinvenute e non escogitate.

Il Cantico è un testo sapienziale, resistente a tutti i funzionalismi: all’utilitarismo, che esclude valore a ciò che non è funzionale ad una qualsivoglia forma di utilità; al sapere scientifico, che non riesce a cogliere il senso del reale al di fuori del nesso di causa ed effetto; al funzionalismo del sapere teologico che è tentato di porre la riflessione come superiore e precedente all’esperienza.

Il Cantico è un testo sapienziale perché è “senza scopo”, scevro di accondiscendenza ad ogni forma di potere esercitato sulla vita, sull’uomo, sulle cose; sapienziale perché orientato unicamente al “sapore” della vita, che è già offerto, basta saperlo (ac)cogliere.

 

 

Per oggi è tutto quello che ho da portare -

Questo, e insieme il mio cuore -

Questo e il mio cuore e i campi -

e i prati – tutto intorno -

Contali uno per uno – dovessi dimenticarmene io

qualcuno dovrà ricordarne la somma -

Questo, il mio cuore e le api, una per una,

che abitano il trifoglio.

(E. Dickinson)

 

 

LA POESIA.  Il Cantico monumento poetico all’inseparabilità dell’umano e del divino.

La poesia ha la capacità di creare nella parola una prospettiva nuova, una maggiore capienza nell’abbraccio con la realtà che diventa felicità inattesa. Il potere della parola poetica è eversivo, resiste ad ogni fissazione sistematica. Anche il Cantico ha spesso subito dei tentativi di addomesticazione, verso il basso e verso l’alto.

 

Del Cantico ti scriverò dall’Italia. In effetti lo vorrei leggere come un cantico d’amore terreno. Probabilmente è questa la migliore interpretazione “cristologica”.

(D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline 1988, p. 386)

 

La forza del Cantico è, forse, proprio la sua fedeltà all’esperienza umana.

Esso ha dato sempre scandalo, come ogni narrazione veramente adeguata alla vita.

Sempre si è cercato di “addomesticarlo”, verso l’“alto” o verso il “basso”, verso l’interiore o verso l’esteriore.

Il tentativo è il medesimo: la fuga dalla vita, la fuga dall’umano. In una duplice direzione:

Fuga dall’umano elementare e originario: quando si cerca di subordinare l’umano allo spirituale, o il “biologico” al razionale. Dimenticando che l’umano o il “biologico”, sono l’origine e il sostrato perenne di ogni riflessione: la ragione forse costituisce l’ultimo stadio evolutivo o perfettivo della biologia terrestre, della vita, ma non ne è al di là.

Fuga dalla “sporgenza” (o dall’eccedenza) spirituale dell’umano: la riflessione razionale-teologica avviene in forza di una vocazione intrinseca alla stessa dimensione umana, che si radica nelle esperienze biologiche più elementari, come la nutrizione e la sessualità. Non è casuale che tutte le religioni elaborino le loro teologie basandosi su esperienze elementari. L’oblio della dimensione spirituale e teologica conduce, alla lunga, ad un’incomprensione radicale dell’umano stesso.

Il Cantico dei Cantici è un monumento all’inseparabilità di umano e spirituale (o divino).

Pur nella propria autonomia, entrambi – umano e spirituale-divino – si rivelano, si donano l’uno all’altro, senza forzare né snaturare l’altro.

Così, soltanto attraversando l’umano, restandogli fedeli, è possibile raggiungere lo spirituale. E solo nella fedeltà alle radici e allo sviluppo dell’esperienza religiosa e spirituale è possibile scoprire la reale profondità dell’umano.

Il Cantico è, dunque, testimonianza di come ciò che è pienamente umano può rivelarsi, ad un tempo, come integralmente spirituale. E di come lo spirituale nel vissuto umano non esiste, né può essere pensato senza fedeltà all’umano.

In altri termini, il Cantico riesce a parlare con verità di Dio, perché non rifiuta di parlare con sincerità dell’uomo.

Il cammino, che il Cantico addita, non è però scontato: esso suggerisce a ciascuno di rischiare da sé di trovare nell’umano una traccia di Dio, ovvero di rischiare di scoprire un’apertura spirituale proprio negli aspetti più carnali dell’umano, dove mai crederemmo di poter incontrare Dio.

 

 

Corona

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.

Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:

lui ritorna nel guscio.

 

Nello specchio è domenica,

nel sogno si dorme,

la bocca fa profezia.

 

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:

noi ci guardiamo,

noi ci diciamo cose oscure,

noi ci amiamo come papavero e memoria,

noi dormiamo come vino nelle conchiglie,

come il mare nel raggio sanguigno della luna.

 

Noi stiamo allacciati alla finestra, dalla strada ci guardano:

è tempo che si sappia!

E’ tempo che la pietra accetti di fiorire,

che l’affanno abbia un cuore che batte.

E’ tempo che sia tempo.

 

E’ tempo.

 

(P. Celan)

SIAMO PASSATI DI Lì

Marco Belcastro:  voce, chitarra, pianoforte

Franco Parravicini: chitarra elettrica, basso elettrico, chitarra saracena

Clara Zucchetti: percussioni, voce

Flaviano Braga: bandoneon, fisarmonica

Silvia Cosmo: violoncello

Simone Mauri: Clarinetto

Mario Arcari: oboe, corno inglese, sax, fiati

 

Testi e musiche: Marco Belcastro

Prodotto da Marco Belcastro e Franco Parravicini

Arrangiamenti: Marco Belcastro

 

 

1. Figlio

2. Raccontami ancora

3. Fiori alla finestra

4. Lasciarsi danzare

5. Respiro di luce

6. In questo buio

7. Canto

8. Non è il modo di dirsi addio

9. Siamo passati di lì

 

 

 

Di notte un padre pensa al figlio.

Una notte da attraversare insonni per riposare nei profumi mediterranei, ascoltare il respiro della terra e gustare il silenzio di un’attesa.

La paura e la solitudine di chi viaggia per terra e per mare o è chiuso dentro una cella. Il nostro tempo e la nostra solitudine.

Accade però che le vie si incrociano e le vite si confondono e allora può nascere una nuova possibilità, un giorno nuovo.

Il canto lo racconta, il suono ci culla e ci porta verso luoghi e ed esperienze che riconosciamo familiari.

Anche noi siamo passati di lì.

ALLE NUVOLE IN VIAGGIO HA LEGATO IL SUO AMORE

Marco Belcastro:  voce, chitarra, pianoforte

Franco Parravicini: chitarra elettrica,

 

Le nuvole oscurano il cielo, lo fanno buio. Poi lo muovono tra forme diverse, quelle dei bambini e di chi non rinuncia al gioco e vuole immaginare sempre. Le nuvole passano, vengono, vanno e il loro transito assomiglia a quello di chi non ha certezze, perché non può o perché non vuole.

Alle canzoni di Fabrizio De André ci siamo spesso aggrappati, perché ci hanno dato le parole per accostare le esperienze più sublimi e le disarmonie più crudeli.

Così il canto racconta dell’amore che nasce, sfiorisce, muore e rinasce, della guerra che porta la paura, della solitudine silenziosa di chi soffre.

Con grazia e delicatezza Marco Belcastro rende omaggio al cantautore poeta. La voce calda si intreccia al suono degli strumenti che disegnano una filigrana di suoni e ci portano lontano, assieme alle nuvole.

 

Alle nuvole in viaggio ha legato il suo amore

Ho messo in valigia la tua gru di carta e la foto di noi seduti nel prato.

Mi hai toccato la mano che allacciava la cinghia e hai svegliato Maria.

Siamo scesi per strada

e l’ombra del drago avvinghiava le case, i tuoi passi.

Nel ritorno voi due sole vi davate la mano,

ero sempre più piccolo nell’oblò della nave.

Nelle nuvole in viaggio ho perduto i miei occhi.

Ma che strani gabbiani hanno qui sulla costa

hanno il volo e le ali di specie mai vista

e questo fiocco di neve assomiglia al sole.

Quante storie portate dal vento

cartoline poi pacchi, denari,

quella vecchia che legge le carte.

E io perdo il cappello del tempo

se ti penso che scendi dal cielo

e mi chiedi di nuovi origami.

Si avvicina una donna da Oriente.

E racconta di sé nel taccuino che porta.

Alle nuvole in viaggio ha legato il suo amore.